Perché divennero "briganti"
Gennaro De Crescenzo
"Merito la morte perchè
sono stato assai crudele contro parecchi che mi caddero tra le mani; ma merito
anche pietà e perdono perchè contro mia indole mi
hanno spinto al delitto. Ero sergente di Francesco II e ritornato a casa come
sbandato mi si tolse il brevetto, mi si lacerò l'uniforme, mi si sputò sul viso
e poi non mi si diede più un momento di pace facendomi soffrire sempre ingiurie
e maltrattamenti: si cercò pure di disonorarmi una sorella, laonde
accecato dalla rabbia e dalla vergogna non vidi altra via di vendetta che
quella dei boschi, e così per colpa di pochi divenni crudele e feroce contro di
tutti ma io sarei vissuto, se mi avessero lasciato in pace. Ora io muoio
rassegnato, e Dio vi liberi dalla mia sventura" (1).
Perchè divennero briganti? Lo spiega
Pasquale Cavalcante di Corleto prima di morire fucilato come uno dei tanti
"briganti" del Sud. Ce lo spiega con semplicità e con rabbia: per
legittima difesa, per reagire contro un'invasione straniera, per difendere la
dignità e l'identità di un popolo.
Nel corso degli anni la storiografia ufficiale ha cercato
in ogni modo di giustificare la tragica pagina del "brigantaggio"
meridionale post-unitario. Se per la resistenza di una forte tradizione orale
locale e per la stessa gravità dei fatti in questione era difficile cancellare
completamente queste pagine di storia, bisognava allora ad ogni costo
inquadrare i cosiddetti "briganti" in una visione
"romantico-risorgimentale", liberale o marxista. Si fa strada, subito
dopo l'unificazione, una lettura che inserisce gli ultimi difensori della
Nazione Napoletana tra gli eroi di un "romanticismo" letterario che
confonde racconti leggendari e personaggi di secoli diversi, invenzioni
romanzesche e mitologie fantasiose: "briganti" e
"brigantesse", allora, uniti a rapimenti o a fughe a cavallo nei
boschi, confondono storie e idee in un unico calderone indistinto che niente ha
a che fare con la storia vera. Da questa visione prende spunto, forse, la
stessa lettura liberale che parte da Croce e arriva, attraverso i famosi
"meridionalisti" della prima e dell'ultima ora, fino ad oggi: si
minimizzano i fatti, si semplifica la questione e si riduce tutto ad un
banditismo diffuso nel Sud da secoli e per secoli con un filo rosso che,
secondo alcuni, unisce i delinquenti comuni del periodo spagnolo a quelli dello
stesso periodo borbonico, i nostri "briganti" ai più attuali
esponenti della camorra (2).
E' con Gramsci e altri storici marxisti, invece, che si
cerca di affermare un'altra linea: si concede di più alle stragi e ai massacri
compiuti sulla pelle dei meridionali ma, sempre semplificando con
superficialità, il fenomeno viene letto come un altro caso di lotta di classe
ed un esempio di ribellismo contadino che traeva la sua origine dagli atavici
problemi delle plebi meridionali.
Mai come in questo caso, forse, è ancora necessaria una
ricostruzione storica obiettiva e scientifica. La storia del "brigantaggio"
è ancora tutta da ritrovare negli archivi storici locali e nelle pubblicazioni
del tempo, negli archivi militari ancora in parte inutilizzabili e tra quei
giornali e quelle riviste che ebbero il coraggio di denunciare quanto stava
accadendo nel nostro meridione appena 140 anni fa: in questa direzione può
essere preziosa la lettura degli articoli della "Civiltà Cattolica"
recentemente pubblicati a Napoli (3).
Basterebbe leggerne anche solo alcuni per capire che tra
il 1860 e il 1870 nei nostri boschi e nelle nostre città non c'erano eroi ed
eroine romantiche o contadini delusi e arrabbiati: combattemmo, nella nostra
terra, una guerra legittima di liberazione e di resistenza contro una cultura
ed un popolo stranieri, difendemmo palmo a palmo, case, terre e famiglie da una
rivoluzione che non poteva e non doveva essere nostra, uccidemmo e morimmo come
i tanti e sconosciuti eroi di una contro-rivoluzione che ci aveva già visto
combattere e morire in Francia o in Spagna, nel 1799 come nel 1820, nel 1848 come
nel 1860.
E diventa più che mai necessario utilizzare tutte le
fonti che abbiamo a disposizione e che in questi anni sono state usate in modo
sempre parziale o condizionato da questa o da quella ideologia: scopriremmo
facilmente che "briganti" ve ne furono senza dubbio nelle campagne e
sulle montagne di tutta l'Italia meridionale ma "briganti" (o
"patrioti" o "legittimisti") ne potremmo trovare anche
nelle città e addirittura nella stessa capitale. Si trattò di una guerra di
resistenza e di difesa legittima di se stessi, del proprio Re, della propria
bandiera e della propria nazione a Napoli come a Potenza, a Melfi come a
Palermo.
E' ovvio (ma non lo è stato, colpevolmente, per la
storiografia ufficiale in tutti questi anni) che per le strade di Napoli o di
Palermo non si combatteva nello stesso modo in cui si combatteva tra i boschi
della Lucania. Nessuno ha voluto approfondire le rivolte post-unitarie avvenute
in Sicilia (famosa quella del "sette e mezzo" nel 1866) nè si è andato mai a leggere i documenti, ad esempio, dei
fondi della Questura di Napoli: tumulti, violenze, proteste, arresti, non si
contavano più: E' a Santa Lucia che avvennero i fatti più gravi, da quelle
parti sequestrarono diverse copie di un "Appello dei legittimisti" che,
tra l'altro, riportava anche le parole dell'Inno Reale ("Iddio conservi il
Re..."); erano considerati "pericolosi" i doganieri napoletani;
venivano pedinati e sorvegliati quotidianamente ex soldati ed ex impiegati
pubblici; furono arrestati parroci e sindaci dei Comuni di Soccavo e di
Casalnuovo; fu arrestato Pasquale Matteucci, artefice di una rissa al Ponte di
Casanova presso la Ferrovia, per aver gridato "Viva Francesco II";
furono sfrattati e arrestati molti monaci dei conventi di S. Eframo e del Carmine e i parroci che protestarono contro il
provvedimento che imponeva la rimozione delle immagini sacre dalle strade;
furono trucidati gli operai di Pietrarsa nel 1863
solo perchè protestavano contro il governo e
cercavano di difendere il loro lavoro (4). Si faceva una grande fatica,
insomma, a mantenere l'ordine pubblico anche nella stessa capitale nonostante
la massiccia presenza di militari: sembravano non bastare i 120.000 uomini
inviati da Torino: quale delinquenza comune o quale semplice ribellione
contadina poteva costringere i piemontesi quasi a perdere la loro ultima
conquista?
Quando era accaduto qualcosa di simile con i Borbone o
nel resto dell'Italia? Fu una vera e propria guerra in cui, inequivocabilmente,
si moriva per una bandiera e per un re: "sono un soldato di Francesco
II" furono le ultime parole di Domenico Petrocelli di Moliterno prima di
morire fucilato (5).
E le leggi erano quelle spietate e dure di ogni esercito
e di ogni guerra: i nostri "briganti" mancavano certamente di mezzi e
di coordinamento (al contrario di quanto più volte sostenuto dagli storici
ufficiali) ma non erano secondi a nessuno nel coraggio e nella determinazione:
il capo-brigante Coppa fece fucilare il fratello per un saccheggio non
autorizzato in una masseria; Francesco Fasanella uccise un uomo che aveva
tentato di violentare alcune ragazze (6); Domenico Di Sciascio,
ex ufficiale borbonico, secondo una leggenda locale, fu catturato e ferito di
sabato, giorno in cui andava disarmato perchè
dedicato alla Madonna; gli uomini della banda Masini affidarono ad un contadino
di Caggiano 70 piastre per far celebrare messe alla Madonna di Viggiano; 15
briganti della banda Carbone preferirono morire bruciati piuttosto che
arrendersi; molti altri come loro preferirono il suicidio all'arresto; a
Monreale di Potenza Federico Aliano, prima di essere decapitato, "fuma e
compie tutti gli atti religiosi con severità, chiede perdono ai presenti per i
suoi misfatti e chiede ai genitori di badare all'educazione dei figli perchè non accada a loro ciò che è accaduto a lui"
(7). Altro che delinquenti comuni... Luigi Alonzi
detto Chiavone, in un suo proclama incitava i
napoletani a combattere contro "il piemontese nemico del nostro re, della
nostra monarchia, delle nostre leggi, del patrizio, del borghese, del
cittadino, di tutti gli ordini militari, civili, religiosi il piemontese che
arde città e massacra i fedeli a Dio... perché l'Arcangelo Gabriele ci covrirà con il suo scudo, la Vergine Immacolata con il suo
manto e faranno vittoriosa la nostra bandiera che appenderemo in voto nel
Tempio... e ritornerà quella gloriosa dinastia Borbonica che ci diede
l'indipendenza dallo straniero" (8). Altro che semplice ribellione
contadina... Fu una guerra per la dignità e l'identità di un'intera nazione: si
moltiplicavano in quegli anni e per tutti i paesi attraversati dai
"briganti", tra torce accese e campane a gloria, i simboli di questa
dignità e di questa identità: teli bianchi per bandiere, quadri, immagini,
statuette di Francesco e Maria Sofia, tarì borbonici bucati sui petti,
"abitini" con monete di 5 grana: piccoli simboli di un'appartenenza
spesso segreta ma fiera.
"Non sono briganti come gli dicono, non credete che
vadano rubando davvero", afferma Carlo Antonio Gastaldi, soldato di Biella
passato al nemico, in una lettera al padre (9).
E' una vera e propria guerra con un popolo intero che si
ribella e scende a combattere anche senza armi per difendere Dio e Patria, Re e
Famiglia, esattamente com'era avvenuto nel
E' significativa la vicenda di uno dei tanti meridionali
che presero le armi contro gli invasori: quella di nunzio Tamburrini.
Le foto che lo ritraggono in catene sulla porta del carcere di Civitavecchia
sono tra le più utili che si possano ricordare: la fierezza e quasi il distacco
che Tamburrini evidenzia nei confronti della guardia
carceraria e dello stesso fotografo possono essere la sintesi della dignità di
tutto un popolo disposto a combattere e a morire per la sua libertà. Tamburrini , capobanda di Roccaraso, fu arrestato
nel gennaio del 1865 forse prima che, come tanti altri
suoi compagni, si imbarcasse per le Americhe. Alcune fonti lo dichiarano
fucilato a Teramo nel 1868 ma a noi piace ricordarlo, oltre che per il coraggio
dimostrato durante i cinque anni della sua guerra, per un'ironia tutta
meridionale che pure viene fuori da tutta la sua vicenda: dieci bottiglie di
rum, una "pezzotta di formaggio di marzo" e
"dieci pacchetti dicavurro" (sigari marca
Cavour) chiede in un suo biglietto di ricatto il "feroce brigante Tamburrini" famoso anche per i travestimenti da frate
o da suonatore ambulante: una volta avrebbe addirittura avuto il coraggio di
andare a vendere forbici e coltelli ad alcuni sottufficiali piemontesi (10).
"Ho trovato per tutto un affetto al principio
monarchico che spinge al fanatismo, ma per mala ventura accompagnato da una
paura che lo paralizza...-scrive Borjès nel suo
diario- malgrado ciò ho compreso che se si potesse operare uno sbarco con
duemila uomini... la dominazione piemontese sarebbe distrutta perchè tutte le popolazioni si leverebbero in massa come un
solo uomo. I ricchi, salvo poche eccezioni, sono cattivi dovunque e quindi
assai detestati dalla massa generale..." (11).
Ma quei duemila uomini non arrivarono mai. Il regno fu
perduto per sempre e vinsero quelli che l'eroico spagnolo poche ore prima di
essere ucciso senza pietà e senza rispetto aveva definito "ricchi" e
"cattivi".
Prevalse un mondo nuovo che si portava via i re, i canti
davanti ai fuochi e le bandiere, quelle facce scure e quegli occhi sorpresi o
impauriti fissati per sempre da un lampo improvviso; si portò via i "bellofatto", i "cinquecippone",
i "nennanenna" e i "crepasassi", i "pirichicchio"
e i "mussargiento", con tutte le loro
storie e tutti i loro stracci, tutti i sogni e le speranze che erano i sogni e
le speranze di un popolo che fa ancora fatica, oggi, a sognare e a sperare.
Fummo cancellati dalla storia o diventammo dati sugli
schedari della polizia ("occhi castagni, fronte regolare, carnagione
regolare...") o nomi e cognomi sulle liste delle navi che iniziarono a
partire quando la guerra era già finita.
"Il popolo manca di lavoro, di pane, di speranza.
Anche a Napoli si è avuto uno spettacolo pietoso -scrive Ulloa
in una lettera del 1866- Arrivava una carovana ininterrotta di contadini delle Calabrie, della Basilicata e del Cilento che venivano per
emigrare. Li hanno descritti pallidi, disfatti, con l'aspetto della più crudele
miseria. Già una quantità di operai cacciati dagli arsenali e dai cantieri sono
partiti per l'Egitto e dalla Sicilia a Tunisi, a Tripoli, ad Algeri. Molti
cercano nel porto di Genova di imbarcarsi per l'America meridionale... Ma come
è accaduto che gli abitanti delle Due Sicilie, il popolo meno fatto prima per
lasciare la sua patria, se non per viaggiare, siano spinti ora da questa furia di
emigrazione?" (12).
Tutti colpevoli e senza attenuanti i meridionali che
scelsero il silenzio di fronte al massacro della loro gente: da Nitti a Villari, da Croce a Fortunato. Tutti colpevoli i tanti che
non presero posizione o che preferirono rifugiarsi nei loro palazzi, sulle
cattedre delle loro università o dietro le scrivanie dei loro giornali: come
quel Melchiorre Delfico, disegnatore che invece di denunciare morti e
devastazioni si divertiva e divertiva il resto dell'Italia disegnando
caricature di "briganti meridionali infilzati a catena da un ferro
piemontese..." (13).
Quei meridionali che una storia falsa e bugiarda ha
definito "briganti" rappresentavano, nell'Italia di 150 anni fa, la
società reale che si ribellava alle imposizioni di una minoranza che oggi
definiremmo "società civile o legale": noi che quotidianamente
viviamo i problemi veri e concreti delle nostre città, assediati dai
"finti rinascimenti" di ieri e di oggi, con la difficoltà di
riconoscere nemici che non portano più divise piemontesi e lontani dai palazzi
del potere e della cultura a pagamento, anche per questo ci sentiamo vicini ai
nostri "briganti" e, forse, vorremmo somigliargli un poco. E ci
possono servire come un esempio la dignità e la fierezza di quegli occhi che
ancora intravediamo da quelle vecchie foto ingiallite tra le pagine della
nostra memoria storica.
NOTE
(1) Raffaele Riviello, Cronaca Potentina dal 1799 al
1882, Potenza, 1888, p.383.
(2) E' la lettura forse più diffusa e ripetuta (dagli
studi dello stesso Monnier a quelli più recenti di
Alfonso Scirocco).
(3) Brigantaggio legittima difesa del Sud (gli articoli
di Civiltà Cattolica), Napoli, Editoriale Il Giglio, 2001.
(4) Archivio di Stato di Napoli, fondo Questura, fasci
11-14.
(5) Archivio Storico di Potenza, Atti e processi di
valore storico, cartella 289-5 (cfr. anche Pietro Varuolo,
Il volto del brigante, avvenimenti briganteschi in Basilicata,1860-1877,
Galatina, 1985, p.122).
(6) Giuseppe Bourelly,
Brigantaggio nelle zone militari di Melfi e Lacedonia dal 1860 al 1865, Napoli,
1865, p. 81.
(7) Archivio Storico di Potenza, Prefettura, Gabinetto,
Cartella 502; Pietro Varuolo, cit., p.132; Franco
Cercone, Briganti di Roccaraso, Pescara, 1997, pp. 8-9.
(8) Archivio di Stato di Caserta, Intendenza, Affari
Diversi, Polizia, busta 376, novembre 1861.
(9) Gustavo Buratti, Carlo Antonio Gastaldi, un operaio
biellese birgane dei Borboni, Vibo Valentia, 1989, p.
43.
(10) Franco Cercone, Briganti di Roccaraso, Pescara,
1997, pp. 52-59.
(11) Marco Monnier, Notizie
storiche documentate sul brigantaggio nelle provincie napoletane, 1862, ed.
Napoli, 1965, p. 137.
(12) Lettera di Pietro Calà Ulloa a Monsieur Paris cit. in Michele Topa, I briganti di
sua Maestà, Napoli, 1993, p. 37.
(13)L'Arlecchino", 8, 10,