Brigantaggio nel Cilento

 

Dopo l'unità d'Italia nel Cilento, coerentemente con quanto avveniva in tutto il territorio dell'ex Regno delle Due Sicilie, si registrarono intense attività reazionarie volte a contrastare l'invasione piemontese portatrice di sciagure e di miserie.

 

Per comprendere il fenomeno che interessò questa regione è utile aprire una breve parentesi storico - sociale.

 

In questa regione, come in altre del Regno, il governo Borbonico offriva la possibilità ai contadini di coltivare e gestire le terre demaniali, in modo da essere possessori di terreni e non braccianti al soldo dei ricchi proprietari terrieri.

 

Questo usufrutto delle terre demaniali prendeva il nome di "Usi Civici", e garantiva ai meno ricchi una certa tranquillità economica. I cilentani sanno bene che un tempo non molto lontano le terre erano coltivate intensamente, i prodotti (grano e vino) venivano esportati in grosse quantità, rendendo questo territorio prospero e ricco.

 

Essere possessore e non possidente, però, lasciava un certo senso di precarietà, in quanto il contadino poteva perdere la capacità di sfruttamento della terra se la lasciava per un certo tempo abbandonata oppure se non aveva eredi maschi.

 

A questa precarietà e al desiderio di un'assegnazione proprietaria definitiva di quei terreni demaniali di cui erano da secoli possessori, i giacobini prima e i liberali poi, fecero appello per animare i cilentani alla rivolta contro i Borbone.

 

Nacquero e si svilupparono delle sette locali che illudevano le masse popolari di poter risolvere problemi "ignorati" dalle istituzioni.

 

Queste sette, tra cui famosa è la setta "Fratellanza", avversarono profondamente i Borbone, contro i quali congiurarono duramente fino ad arrivare a programmare l'insurrezione cilentana del 1828 e del 1848, attuando contatti segreti con i più noti cospiratori del Cilento; in entrambi i casi il governo Borbonico riuscì a sedare la rivolta procedendo a numerosi arresti.

 

C'è da sottolineare però un aspetto: da testimonianze e racconti dell'epoca si evince che questi gruppi di liberali si dileguavano alla vista delle divise borboniche, cosa che invece, pochi anni dopo non accadde dinanzi alle divise piemontesi; analoga osservazione si può fare sui "volontari" garibaldini del Sud che dinanzi ai soldati napoletani preferivano andare via piuttosto che combattere.

 

Queste osservazioni inducono a riflettere su quanto effettivamente fosse recepito come "tirannico" il governo Borbonico dalle popolazioni meridionali, e quanto invece fu recepito come tale quello piemontese; nel primo caso non valeva la pena rischiare la vita, nel secondo divenne una questione di onore metterla al repentaglio in nome della Libertà (quella vera, di indipendenza duosiciliana).

 

Tra il 1857 e il 1859 inoltre si registrò un'intensa attività anti - borbonica con l'organizzazione di numerosi centri e comitati rivoluzionari che interessarono molti pacifici paesi del Cilento; l'azione repentina della polizia fece però allentare l'attività messa in atto dai cospiratori liberali.

 

Il nome di Garibaldi era sulla bocca di tutti e si aspettava con ansia "l'eroe", al cui seguito erano cinque cilentani: Michele Magnoni, Filippo Patella, Francesco Paolo Del Mastro, Leonino Vinciprova e Michele Del Mastro. I patrioti rimasti in provincia preparavano le armi e reclutavano quante più persone fosse possibile.

 

Con la proclamazione dell'unità d'Italia, si determinò una crisi lunga e profonda. Purtroppo però per i cilentani, sia nel caso dei giacobini della Repubblica Partenopea, sia nel caso dei liberali, la distribuzione delle terre ai contadini fu soltanto sterile propaganda bugiarda e meschina.

 

Difatti i giacobini non fecero altro che mettere all'asta le terre demaniali, andando così ad ampliare i latifondi e aumentare il divario tra i ricchi e i poveri; analoga sorte ebbero le terre demaniali all'indomani dell'unità d'Italia: assegnate alle sole classi della aristocrazia e dell'alta borghesia.

 

Pertanto il fenomeno del Brigantaggio nel Cilento, come del resto in tutto il territorio dell'ex Regno, è da ascriversi ad una reazione verso l'invasore bugiardo che promise la distribuzione delle terre ai contadini per accattivarne le simpatie, e invece si dimostrò dalla parte di quei "signori" che professandosi come "liberali" anti-borbonici altro non desideravano che arricchirsi sfrenatamente ai danni dei più poveri e dei più deboli.

 

A conferma di ciò basti riflettere sul fenomeno emigratorio, sconosciuto prima dell'unità d'Italia, ma tristemente noto ai meridionali proprio a partire dalla costituzione di questo nuovo Regno, improntato sulla speculazione, sullo sfruttamento, su una repressione sanguinaria e violenta del tutto sconosciuta alle pacifiche popolazioni meridionali.

 

Nell'agosto del 1861 una legge unificava il debito pubblico del Regno Sardo, che era il doppio di quello di Napoli; questa fu una delle tante manovre che inducono oggi, affrontando la Storia con minore superficialità, a parlare di "colonizzazione" del Sud, tesi supportata anche dalla caduta dei prezzi agricoli, dalla sistematica chiusura delle industrie domestiche ed industriali, che avevano rappresentato l'asse portante dell'economia.

 

Con un'operazione lenta ma inesorabile, siamo diventati da grandi produttori (avevamo la prima flotta mercantile del Mediterraneo) a sterili consumatori.

 

Negli anni '70 del 1800 arrivò per l'economia agricola il colpo finale: il regno d'Italia per proteggere la nascente fabbrica settentrionale dalla concorrenza straniera pensò bene di aumentare i dazi doganali delle merci importate dalla Francia, cosa che spinse quel Paese a fare lo stesso con i prodotti agricoli importati dall'Italia, che guarda caso erano prodotti per la maggior parte meridionali (grano e vino).

Per cui anche l'agricoltura, che a stento era riuscita a sopravvivere all'invasione piemontese, si piegò e il flusso migratorio di contadini ormai ridotti alla fame, verso terre lontane divenne un vero e proprio esodo.

 

Le speranze, quindi, andarono deluse, perché a quella unità non corrispondeva l'unità degli italiani. Il popolo viveva la situazione come una vera e propria occupazione, con tanto di aumento indiscriminato di tasse e balzelli, acuita dal disprezzo dell'invasore verso la Chiesa e il sentimento religioso dei meridionali, tacciati di fanatismo.

 

Per molti cilentani il brigantaggio fu considerato l'unica forma di protesta e di ribellione all'autoritarismo del governo post-unitario, tra di essi ricordiamo Giuseppe Tardio, capo della banda di cui facevano parte Esposito Giuseppe di Centola e Pietro Lucido Rubano, che, nei primi giorni di febbraio del 1862, si recò con altri a Centola per porsi a capo di quella famosa banda che aveva partecipato alla reazione borbonica nell'agosto del 1861.

 

Così il Rubano ed il Tardio, e centinaia di loro adepti, invasero diversi centri cilentani. L'ultimo saccheggio avvenne a Caselle in Pittari, dove la banda fu sgominata.

 

Lorenzo Degl'Innocenti